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AMSTERDAM: IL RISVEGLIO CRISTIANO E’ SEMPRE PIU’ FORTE

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La campagna. Le donne israeliane: «Stuprate, picchiate. E il mondo tace»

AVVENIRE – Fiammetta Martegani

Tel Aviv martedì 28 novembre 2023

La denuncia contro l’Onu e i movimenti femministi rimasti in silenzio sui crimini di Hamas nei confronti delle donne dei kibbutz.

 «Alla vigilia del 25 novembre ci siamo dette che non potevamo aspettare un giorno in più. Era necessario far sentire la nostra voce, la voce delle donne israeliane sopravvissute al massacro del 7 ottobre. E di tutte coloro che, purtroppo, non ce l’hanno fatta».

Sono le parole di Liron Kroll, direttrice creativa della campagna #MeToo_Unless Ur_A_Jew (“MeToo, a meno che tu sia ebrea), organizzata in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, istituita nel 1999 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Proprio grazie alla sua professione di direttore artistico, Liron si è attivata fin dal 7 ottobre nell’aiutare chi è stato più colpito dal massacro di Hamas, a partire delle famiglie degli ostaggi.

«Molte di loro sono donne: madri, figlie, nonne – ci racconta –. E la loro pena è doppia. Non solo per quello che hanno subìto durante quel Sabato Nero, ma anche perché a questo dolore si aggiunge il silenzio del mondo: il fatto che quel dolore non venga riconosciuto all’estero. Che non venga addirittura riconosciuto dall’Onu e da quei gruppi femministi che il 25 novembre sfilavano per le strade delle capitali europee e americane».

Sono trascorsi ormai più di 50 giorni dal 7 ottobre, giorno in cui Hamas, nel commettere il più grande massacro nella storia di Israele, si è macchiato anche di gravissimi crimini e violenze sessuali nei confronti delle donne. Israeliane soprattutto. Ma non solo israeliane: sono, infatti, 28 le nazionalità tra i 239 ostaggi che sono stati rapiti nella Striscia.

Eppure, fuori da Israele, permane una riluttanza nel denunciare le atrocità commesse dal gruppo terrorista nei confronti delle donne. E questo anche se il gruppo Hamas abbia fornito prove fin troppo evidenti delle atrocità di cui si è reso protagonista pubblicando in tempo reale i filmati delle giovani rapite, fatte sfilare per Gaza picchiate, ferite, umiliate, violentate, molte con i pantaloni insanguinati.

Il silenzio caratterizza persino quelle attiviste dedite proprio alla difesa dei diritti delle donne. Nel denunciare tutto questo, Nicole Lampert, firma di Haaretz, mette in luce anche un aspetto che riguarda le donne a Gaza: «Ci si sarebbe aspettati una ferma condanna da parte dei gruppi femministi ben prima del 7 ottobre, quando le credenziali di Hamas in fatto di femminismo non erano certo brillanti visto che il gruppo impone l’uso dell’hijab, ha reso illegale viaggiare senza un tutore maschio e si è rifiutato di vietare gli abusi fisici o sessuali all’interno della famiglia».

Invece, la maggior parte dei movimenti femministi ha taciuto. Addirittura, il 30 ottobre, 140 eminenti studiose americane hanno firmato una petizione «per il cessate il fuoco» dichiarando, però, che essere solidali con le donne israeliane significa cedere al «femminismo coloniale». Come osservato dalla Lampert, nel Regno Unito l’unica organizzazione a denunciare la violenza sessuale del gruppo terrorista è stata “Jewish Women’s Aid”, sottolineando come «il silenzio pubblico di molte organizzazioni ha un ulteriore impatto sull’isolamento e sulla paura delle vittime israeliane».

«Non rimarremo in silenzio. La vita di ogni donna è ugualmente preziosa», sottolinea dunque la campagna #MeToo_Unless Ur_A_Jew. «Istituzioni come la Croce Rossa Internazionale e UN Women non hanno fatto nulla per supportare le nostre vittime», ha scritto – nella campagna Instagram – Keren Sharf Shem, la cui figlia Mia, 21 anni, è stata rapita durante il Festival Nova. Le madri degli ostaggi hanno lanciato anche la campagna #MomToo (“mamma anch’io”) in cui si possono ascoltare le voci delle donne i cui figli sono stati rapiti o uccisi da Hamas. Lo scopo è sensibilizzare le madri di tutto il mondo per creare consapevolezza su quanto è accaduto. E subito dimenticato dal mondo

Perché ora sono cristiana

AYAAN HIRSI ALI  27 NOV 2023-IL FOGLIO (Versione completa)

Nel 2001, dopo l’11 settembre, è stato più facile prendersela con gli errori dell’America che pensare di essere di fronte a una guerra di religione: oggi è lo stesso con Israele. L’occidente minacciato e le radici che lo terranno saldo e unito. Libertà, democrazia, femminismo: la lezione di Ali 

Nel 2002, ho trovato una lezione del 1927 di Bertrand Russell intitolata: “Perché non sono un cristiano”. Mentre la leggevo, non mi è mai passato per la mente che un giorno, quasi un secolo dopo quella lezione a Londra, alla National Secular Society, mi sarei ritrovata a scrivere un saggio dal titolo esattamente contrario. L’anno precedente avevo condannato pubblicamente gli attacchi terroristici di 19 uomini che avevano dirottato degli aerei di linea e li avevano fatti schiantare contro le torri gemelle a New York. Avevano agito in nome della mia religione, l’islam. Ero musulmana all’epoca, anche se non praticante. Se condannavo le loro azioni, questo cosa significava per me? Il principio sottostante che giustificava gli attacchi era, dopotutto, religioso: l’idea del jihad, della guerra santa contro gli infedeli. Era possibile, per me come per molti membri della comunità musulmana, distanziarmi semplicemente da quell’attacco e dai suoi risultati terrificanti?

In quel momento, c’erano molti leader occidentali – politici, studiosi, giornalisti ed esperti – che insistevano sul fatto che i terroristi erano motivati da ragioni diverse da quelle espresse chiaramente da loro e dal loro leader Osama Bin Laden. Così l’islam aveva un alibi.

Questo tentativo di scusarli non era soltanto accondiscendente nei confronti dei musulmani. Dava anche a molti occidentali la possibilità di rannicchiarsi nel negazionismo. Prendersela con gli errori di politica estera degli Stati Uniti era più facile che contemplare la possibilità che fossimo di fronte a una guerra religiosa. Abbiamo assistito a una tendenza simile nelle ultime settimane: milioni di persone simpatizzanti con i cittadini di Gaza hanno cercato di giustificare gli attacchi terroristici del 7 ottobre come una risposta alle politiche del governo israeliano.

Quando lessi la lezione di Russell, la mia dissonanza cognitiva iniziò ad alleviarsi. Fu un sollievo poter adottare un atteggiamento scettico nei confronti della dottrina religiosa, abbandonare la mia fede in Dio e dichiarare che non esisteva alcuna entità del genere. Meglio ancora, potevo rifiutare l’esistenza dell’inferno e il pericolo della punizione eterna.

L’affermazione di Russell secondo cui la religione si basa principalmente sulla paura risuonò dentro di me. Avevo vissuto troppo a lungo nel terrore di tutte le orribili punizioni che mi aspettavano. Mentre avevo abbandonato tutte le ragioni razionali per credere in Dio, la paura irrazionale del fuoco dell’inferno era ancora presente. La conclusione di Russell era quindi un sollievo: “Quando muoio, marcirò”.

Per capire perché sono diventata atea vent’anni fa, dovete prima capire che tipo di musulmana ero stata. Ero adolescente quando i Fratelli musulmani penetrarono nella mia comunità a Nairobi, in Kenya, nel 1985. Non credo di aver mai compreso la pratica religiosa prima dell’arrivo dei Fratelli. Avevo sopportato i rituali delle abluzioni, delle preghiere e del digiuno ritenendoli noiosi e senza scopo.

I predicatori dei Fratelli musulmani cambiarono tutto. Articolarono una direzione: la retta via. Uno scopo: lavorare per l’ammissione nel paradiso di Allah dopo la morte. Un metodo: il manuale d’istruzioni del Profeta sui doveri e sui divieti – l’haram e l’halal. Come supplemento dettagliato al Corano, gli hadith spiegavano come mettere in pratica la differenza tra giusto e sbagliato, tra  bene e male, tra Dio e il diavolo.

predicatori dei Fratelli non lasciavano nulla all’immaginazione. Ci diedero una scelta. Sforzarsi di vivere secondo le regole del Profeta e raccogliere le gloriose ricompense nell’aldilà. Su questa terra, nel frattempo, il più grande risultato possibile era morire da martiri per il bene di Allah.

Al contrario, indulgere nei piaceri del mondo significava attirarsi l’ira di Allah e condannarsi a una vita eterna nel fuoco dell’inferno. Alcuni dei “piaceri mondani” che essi condannavano includevano leggere i romanzi, ascoltare la musica, il ballo e andare al cinema – ero imbarazzata ad ammettere che adoravo il cinema.

La qualità più sorprendente dei Fratelli musulmani era la capacità di trasformare me e i miei coetanei da credenti passivi in attivisti, quasi dall’oggi al domani.

Gli anni con i Fratelli musulmani, le istruzioni del Profeta  e l’odio speciale riservato agli ebrei. “L’unica risposta credibile” alle minacce che incombono sulla civiltà occidentale sta “nel nostro desiderio di difendere l’eredità della tradizione giudaico-cristiana”

Non dicevamo solamente cose o pregavamo per qualcosa: facevamo qualcosa. Noi ragazze indossavamo il burka e avevamo rinunciato alla moda e al trucco occidentali. I ragazzi coltivavano la loro barba il più possibile. Indossavano il tradizionale abito bianco, simile a un vestito, indossato nei paesi arabi o facevano accorciare i pantaloni sopra le caviglie. Operavamo in gruppo e offrivamo volontariamente i nostri servizi ai poveri, agli anziani, ai disabili e ai deboli. Esortavamo i musulmani a pregare e chiedevamo ai non-musulmani di convertirsi all’islam.

Durante le sessioni di studio islamico, condividevamo con il predicatore responsabile della sessione le nostre preoccupazioni. Per esempio, cosa dovevamo far con gli amici che amavamo e ai quali eravamo fedeli, ma che rifiutavano di accettare la nostra dawa (l’invito alla fede)? In risposta, ci veniva ricordata continuamente la chiarezza delle istruzioni del Profeta. Ci veniva detto senza mezzi termini che non potevamo essere fedeli ad Allah e Maometto se mantenevamo anche amicizia e lealtà verso gli increduli. Se essi rifiutavano esplicitamente la nostra chiamata all’islam, dovevamo odiarli e maledirli.

Qui, un odio speciale era riservato per una categoria particolare di increduli: gli ebrei. Maledivamo gli ebrei più volte al giorno e esprimevamo orrore, disgusto e rabbia per la lista di presunte offese che avevano perpetrato. L’ebreo aveva tradito il nostro Profeta. Aveva occupato la Santa Moschea di Gerusalemme. Continuava a diffondere corruzione nel cuore, nella mente e nell’anima.

A questo punto, a chi aveva attraversato una formazione religiosa del genere, l’ateismo sembrava parecchio allettante. Bertrand Russell offriva una via di fuga semplice e senza costi da una vita insopportabile di auto-negazione e molestie verso gli altri. Per lui, non c’era una prova credibile dell’esistenza di Dio. Russell argomentava che la religione era radicata nella paura: “La paura è la base di tutto – paura dell’oscuro, paura della sconfitta, paura della morte”.

Diventando atea, pensavo di perdere quella paura. Ho trovato anche un nuovo gruppo di amici, completamente diverso dai predicatori dei Fratelli musulmani. Più trascorrevo tempo con loro – persone come Christopher Hitchens e Richard Dawkins – più mi sentivo sicura di aver fatto la scelta giusta. Gli atei erano intelligenti. Erano anche molto divertenti.
E allora, cosa è cambiato? Perché ora mi definisco cristiana?

Parte della risposta è globale. La civiltà occidentale è minacciata da tre forze diverse ma correlate: la rinascita dell’autoritarismo delle grandi potenze e dell’espansionismo sotto forma del Partito comunista cinese e della Russia di Vladimir Putin; la crescita dell’islamismo globale, che minaccia di mobilitare una vasta popolazione contro l’occidente; e la diffusione virale dell’ideologia woke, che sta minando la fibra morale della prossima generazione.

Cerchiamo di respingere queste minacce con strumenti moderni e laici: militari, economici, diplomatici e tecnologici per sconfiggere, corrompere, persuadere, placare o sorvegliare. Eppure, a ogni round di conflitti, perdiamo terreno. O stiamo esaurendo le risorse finanziarie – il nostro debito nazionale è di decine di trilioni di dollari – o stiamo perdendo il nostro vantaggio nella corsa tecnologica con la Cina.

Ma non possiamo combattere queste formidabili forze a meno che non riusciamo a rispondere alla domanda: cosa ci unisce? La risposta “Dio è morto!” sembra insufficiente. Anche il tentativo di trovare conforto nell’“ordine internazionale liberale basato sulle regole” sembra inadeguato. L’unica risposta credibile, credo, risiede nel nostro desiderio di difendere l’eredità della tradizione giudaico-cristiana.

Questa eredità consiste in un elaborato insieme di idee e istituzioni progettate per salvaguardare la vita umana, la libertà e la dignità: dallo stato-nazione e lo stato di diritto alle istituzioni della scienza, della salute e dell’apprendimento. Come ha dimostrato Tom Holland nel suo meraviglioso libro “Dominion”, tutte le libertà apparentemente secolari – del mercato, di coscienza e di stampa – hanno le loro radici nel cristianesimo.

Così, ho capito che Russell e i miei amici atei confondevano il dito con la luna. La luna è la civiltà costruita sulla tradizione giudaico-cristiana; è la storia dell’occidente, difetti compresi. La critica di Russell alle contraddizioni nella dottrina cristiana è seria, ma è anche troppo limitata nel suo campo d’azione.

Per esempio, tenne quella sua lezione in una stanza piena di (ex o almeno dubitanti) cristiani in un paese cristiano. Pensate a quanto fosse una cosa unica quasi un secolo fa e a quanto questo sia ancora raro nelle civiltà non occidentali. Un filosofo musulmano potrebbe tenere un discorso davanti a qualsiasi uditorio di un paese musulmano – allora come oggi – una conferenza dal titolo “Perché non sono un musulmano”? Un libro con quel titolo esiste, lo ha scritto un ex musulmano. Ma l’autore lo ha pubblicato in America con lo pseudonimo Ibn Warraq. Sarebbe stato troppo pericoloso fare diversamente.

Per me, questa libertà di coscienza e di parola è forse il più grande beneficio della civiltà occidentale. Non è una cosa che viene naturale agli esseri umani, ma è il prodotto di secoli di dibattito all’interno delle comunità ebraiche e cristiane. Sono stati questi dibattiti che hanno promosso la scienza e la ragione, hanno diminuito la crudeltà, soppresso le superstizioni e costruito istituzioni per ordinare e proteggere la vita, garantendo la libertà al maggior numero possibile di persone. A differenza dell’islam, il cristianesimo ha superato la sua fase dogmatica. E’ diventato sempre più chiaro che l’insegnamento di Cristo implicava non soltanto un ruolo circoscritto per la religione come una cosa separata dalla politica, ma implicava anche compassione per il peccatore e umiltà per il credente.

Eppure non sarei sincera se attribuissi la mia adesione al cristianesimo solamente al fatto che ho realizzato che l’ateismo è una dottrina troppo debole e divisiva per fortificarci contro le minacce dei nostri nemici. Mi sono rivolta al cristianesimo anche perché alla fine ho trovato insopportabile la vita senza alcun sollievo spirituale – quasi autodistruttiva. L’ateismo non è riuscito a rispondere a una domanda semplice: qual è il significato e lo scopo della vita?

Russell e altri attivisti atei credevano che con il rifiuto di Dio saremmo entrati in un’era della ragione e dell’umanesimo intelligente. Ma il “vuoto di Dio” – il vuoto lasciato dal ritiro della chiesa – è stato semplicemente riempito da un groviglio di dogmi quasi religiosi irrazionali. Il risultato è un mondo in cui culti moderni sfruttano le masse, offrendo loro motivazioni fasulle per l’esistenza e l’azione, principalmente impegnandosi in un teatro di virtue signalling in nome di una minoranza vituperata o del nostro presunto pianeta condannato. La frase spesso attribuita a G.K. Chesterton si è trasformata in una profezia: “Quando gli uomini scelgono di non credere in Dio, non credono più in nulla, diventano capaci di credere in qualsiasi cosa”.

In questo vuoto nichilista, la sfida che abbiamo davanti diventa civile. Non possiamo resistere alla Cina, alla Russia e all’Iran se non possiamo spiegare alle nostre popolazioni perché è importante farlo. Non possiamo contrastare l’ideologia woke se non possiamo difendere la civiltà che essa è determinata a distruggere. E non possiamo contrastare l’islamismo con strumenti puramente secolari. Per conquistare i cuori e le menti dei musulmani qui in occidente, dobbiamo offrire loro qualcosa di più dei video su TikTok.

La lezione che ho imparato dai miei anni con i Fratelli musulmani è stata la potenza di una storia unificante, inserita nei testi fondamentali dell’islam, per attrarre, coinvolgere e mobilitare le masse musulmane. A meno che non offriamo qualcosa di altrettanto significativo, temo che l’erosione della nostra civiltà continuerà. E fortunatamente, non c’è bisogno di cercare qualche nuova concezione new age di farmaci e meditazione. Il cristianesimo ha tutto.

Per questo motivo, non mi considero più un’apostata musulmana, ma un’atea inattiva. Naturalmente, ho ancora molto da imparare sul cristianesimo. Scopro un po’ di più in chiesa ogni domenica. Ma ho riconosciuto, nel mio lungo viaggio attraverso una selva di paura e dubbio, che c’è un modo migliore per affrontare le sfide dell’esistenza rispetto a ciò che l’islam o l’incredulità avevano da offrire.

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Ayaan Hirsi Ali è nata a Mogadiscio nel 1969, ha la cittadinanza olandese ma vive da diversi anni negli Stati Uniti. Scrittrice e attivista che si batte per i diritti umani e per i diritti delle donne, il suo ultimo libro, non ancora tradotto in italiano, è “Prey. Immigration, islam and the Erosion of  Women’s Right”.  

Padre Kolbe, Fulton Sheen e quelle profezie su Mosca

Il filo rosso che collega padre Massimiliano Kolbe a Fulton Sheen.

Le profezie su Mosca. Il legame con Fatima. Le confessioni di Lenin

Secondo l’arcivescovo Fulton Sheen, il celebre telepredicatore

statunitense di cui si attende la beatificazione, il 13 ottobre 1917 ha avuto luogo la nascita del mondo moderno. E non è un caso che sia quella la data di una delle apparizioni di Fatima.

Ma Fulton Sheen ebbe anche un’altra profezia, e riguardava Mosca.

Una profezia, in qualche modo, simile a quella che un altro santo dalla devozione mariana incrollabile, Massimiliano Kolbe, che guardò al Cremlino negli anni Trenta, ritornando dal Giappone.

Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, Pio XII scriveva: “Preghiamo con animo semplice e instancabile la soavissima Madre di Dio, che il popolo russo venera e moltissimo ama, affinché impetri per i desolati figli, nel più breve spazio di tempo possibile, il magnifico dono di Dio: la libertà di professare la fede”. E nel 1952, lo stesso Papa consacrava al Cuore Immacolato di Maria la popolazione russa, e disse: “Passerà questo tempo e la fede ritornerà a splendere in Russia.

Un giorno la sua fulgida luce si vedrà da Occidente a Oriente”. Quella profezia di Pio XII era stata anticipata dalle profezie di padre Massimiliano Kolbe e dell’arcivescovo Fulton Sheen.

Kolbe passò da Mosca nel lungo viaggio che lo portò dal Giappone fino in Polonia, dove tornò e morì poi in campo di concentramento, offrendo la vita per un prigioniero. È stato padre Pierre Caillon a raccontare che, proprio nella Piazza Rossa, padre Kolbe guardò al Cremlino e disse: “Un giorno, l’Immacolata regnerà sul Cremlino e dal Cremlino sul mondo intero”. Sono parole che erano strettamente collegate alla profezia della Madonna apparsa a Fatima. E lo sapeva anche Fulton Sheen.

In una delle puntate della trasmissione Life is Worth Living (La vita è degna di essere vissuta) nel 1954, Fulton Sheen sottolineò che: “la nascita del mondo moderno” ebbe luogo il 13 ottobre 1917.

In quello stesso giorno, ricordò, la cavalleria era entrata in classe di catechismo in una chiesa della Vergine, distrutto l’altare e attaccato i bambini. In quella stessa ora, a Roma, Eugenio Pacelli fu consacrato arcivescovo: successivamente, sopravvisse ad un tentativo di omicidio a Monaco da parte dei comunisti e divenne poi Papa Pio XII.

Ma soprattutto, in quel 13 ottobre 1917, tre bambini, circondati da una folla di curiosi, furono testimoni di una apparizione, che si rivelò essere la Vergine Maria e li ammonì dei pericoli, e diede prova di sé facendo danzare il sole nel cielo.

Quando Fulton Sheen raccontava tutto questo, nel 1954, il Portogallo era entrato nella dittatura di Antonio de Oliveira de Salazar da 12 anni – era stato nominato primo ministro nel 1932, e il suo regime, chiamato “il nuovo Stato”, gli sarebbe sopravvissuto e sarebbe terminato solo a causa di una dittatura militare nel 1974.

Perché Fulton Sheen sosteneva che il mondo moderno era cominciato proprio in quell’ottobre 1917? La risposta stava ovviamente nel mistero di Fatima. Nel 1942, Pio XII annunciò che la Madonna aveva detto ai pastorelli, proprio in quel giorno, che una guerra peggiore sarebbe venuta, che l’avrebbe diffusa il comunismo ateista, e che l’unico modo di salvare il mondo dall’annichilimento e la collera di Dio era appunto pentirsi onestamente, pregare il Rosario e consacrare la Russia al Cuore Immacolato di Maria.

In che modo tutto questo si collegava al regime di Salazar in Portogallo? Questi conosceva il cattolicesimo, era stato persino in seminario prima di studiare legge economica, il Cardinale Manuel Gonçalves Cerejera, patriarca di Lisbona, era stato suo compagno di studi. Per Salazar, Fatima era una ancora di salvezza per mantenere il potere e ancorare il tutto sull’identità.

E così, il governo portoghese enfatizzò la sua eredità cattolica, rinnovò costruzioni storiche e incoraggiò i turisti e i locali a pensare al Portogallo come una nazione nata da una battaglia cattolica, che aveva permesso allo Stato di rimanere neutrale durante la Seconda Guerra Mondiale.

E Fulton Sheen fu uno dei cattolici di un certo peso invitati da tutto il mondo in Portogallo per assistere alle cerimonie per la chiusura dell’Anno Santo, il 13 ottobre 1951. Era questo l’evento cui si riferiva nel suo show televisivo nel 1954.

E fu nell’ambito di questo discorso, che a un certo punto Sheen suggerì i paralleli tra una piazza bianca, come quella di Fatima, e la piazza Rossa di Mosca.

Stava parlando della fede e di quello che vedeva come la più grande minaccia contemporanea contro la Chiesa. E fu a quel punto che profetizzò che un giorno “anche la piazza Rossa di Mosca si sarebbe chiamata Piazza Bianca”.

Suggestioni? Possibile. Va ricordato quello che fu raccolto da “Vikor Bede in conversazioni con Lenin”, quando questi stava per morire.

“Tu sai – aveva detto Lenin – che la mia malattia mi porterà presto alla morte e mi sento abbandonato nell’oceano di sangue di infinite vittime.

Per salvare la nostra Russia ciò è stato necessario, ma è troppo tardi per cambiare ora: avremmo bisogno di dieci Francesco d’Assisi”.

E ancora: “L’umanità percorre la via sovietica e fra cento anni non esisterà altra forma di governo”. Eppure, Lenin sottolineava che

“sotto le macerie delle attuali istituzioni vivrà ancora la gerarchia cattolica… nel prossimo secolo ci sarà solo una forma di governo, quella sovietica, e una religione, la cattolica”.

E i cattolici sarebbero rimasti perché questi effettuano “sistematicamente l’educazione di coloro i quali hanno il compito di guidare gli altri. Non nascerà alcun vescovo o papa, come finora è nato un principe, un re o un imperatore, perché per diventare un capo, una guida, nella Chiesa cattolica, è necessario aver già dato prova di capacità. È in questa saggia disposizione la grande forza morale del cattolicesimo che da duemila anni resiste a tutte le tempeste e rimarrà invincibile anche in futuro. La forza di questa Chiesa è totale, è una forza morale e non estorta. L’umanità ha bisogno dell’una e dell’altra potenza”.

Sono confessioni contenute in due articoli pubblicati sull’Osservatore Romano nel 1924.

Segni tutti da leggere, alla fine.

Di Andrea Gagliarducci

Roma, lunedì, 14. marzo, 2022 9:00 (ACI Stampa).

L’OSTILITA’ NASCOSTA

Di Ernesto Galli della Loggia – 23 Novembre 2023

Con la sua sola esistenza, Israele ricorda a noi occidentali quello che non siamo, che non vogliamo o non sappiamo più essere e suscita un’infastidita insofferenza

Ancora una volta gli ebrei sono soli a vedersela con i loro nemici: possono forse ancora contare sugli Stati Uniti ma certo non su di noi, non sull’Europa. Ho detto gli ebrei, non gli israeliani, perché è impossibile avere dubbi. Infatti sotto le sembianze di un’operazione militare l’attacco di Hamas del 7 ottobre è stato qualcosa di ben diverso: le voci, le azioni, l’esultanza di chi lo ha condotto erano quelle inconfondibili dell’odio antiebraico, della sete di sangue ebreo. Erano le voci e le azioni di un pogrom.

Una «giusta» risposta a quell’attacco, una risposta appropriata — e cioè adeguata all’enormità atroce dell’accaduto ma in grado al tempo stesso di non fare vittime civili, di lasciare intatte le strade e le case di Gaza e chi le abitava — questa risposta fino ad oggi nessuno ha saputo dire quale avrebbe dovuto essere. E soprattutto come sarebbe stato mai possibile eseguirla concretamente: nessuno che io sappia. Eppure non si contano coloro che fin dall’inizio, fin dalle prime ore dell’attacco israeliano a Gaza hanno immediatamente cominciato a denunciarne la natura di «crimine di guerra», addirittura di «genocidio».

Certo, con ogni probabilità l’obiettivo israeliano di distruggere Hamas ad ogni costo, anche a quello di provocare migliaia di vittime civili tra la popolazione di Gaza, era ed è un obiettivo irraggiungibile. Ma quale altro obiettivo poteva prefiggersi chi aveva visto un migliaio e più dei propri concittadini inermi, le proprie donne e bambini, sgozzati, stuprati, sventrati, fatti a pezzi? Quale avrebbe dovuto essere la «giusta» reazione di chi aveva visto oltre duecento di essi rapiti come ostaggi? Prevede qualcosa per una circostanza del genere la Carta delle Nazioni Unite o qualcuna delle sue convenzioni?

Sta di fatto che nell’opinione pubblica europea ormai cresce a vista d’occhio se non l’ostilità perlomeno la dissociazione nei confronti dell’operazione militare israeliana. Si tratta di una reazione che dietro motivi di opportunità diciamo così politico-strategica nasconde in realtà un’antipatia più o meno esplicita per Israele; antipatia che sebbene talora sia pronta a fare tutt’uno con l’antisemitismo latente, è però un’altra cosa, ha una diversa origine.

Sì, Israele è profondamente antipatico a molti in questa parte del mondo. Non è facile sentirlo dire apertamente perché dopo la Shoah tutto quanto riguarda l’ebraismo è oggetto in modo più o meno consapevole di una censura fortissima. Ma la verità è che per ciò che esso è, per come è la sua società, per i valori che lo animano, per i modi della sua gente, Israele suscita in molti qui da noi un sentimento di fastidio, di sordo rigetto. Israele non ci piace. Ma non è la sua diversità in quanto tale che ci dà fastidio (nessuno si fa infastidire dalla diversità, poniamo, dell’Islanda o del Portogallo). Il fatto decisivo è che in questo caso la diversità suscita in noi un sentimento oscuro fatto di nostalgia per una perdita e insieme di un senso di inadeguatezza.

Con la sua sola esistenza, infatti, Israele ricorda a noi occidentali quello che non siamo, che non vogliamo o non sappiamo più essere. Per ragioni se si vuole anche in buona parte indipendenti dalla sua volontà, tuttavia lo Stato ebraico è l’esempio di una società divisa al proprio interno anche in modi asprissimi — ad esempio sulla questione cruciale del ruolo della religione — ma che nei momenti critici sa mettere da parte ogni motivo di frattura e mostrarsi straordinariamente unita e coesa. Dove l’individualismo e i suoi diritti non sono in contraddizione con il sentimento comunitario. È una società che crede in se stessa, nel senso profondo della propria esistenza, della propria storica ragion d’essere, e capace come nessun’altra di instillare questo sentimento nei propri cittadini. Le migliaia di riservisti impegnati nei loro affari ai quattro angoli della terra i quali però nell’ora del pericolo, senza che nessuno li richiami, sentono spontaneamente il dovere di ritornare in 24 ore nella propria patria per difenderla è una circostanza che parla da sola. E che da sola basta a indicare la nostra siderale diversità: giudichino i lettori a vantaggio di chi.

Che lo vogliamo o no, che lo sappiamo o no, per i popoli di cultura cristiana quali noi ancora siamo Israele non è, né può essere un luogo qualsiasi. In forza dell’ovvio spessore simbolico che l’ebraismo ha tuttora per noi esso si pone sempre anche come un termine di confronto e di giudizio. In tutti i sensi: nella insistenza, ad esempio, con cui in tanti guardiamo ai suoi errori, quasi compiacendocene, ma ancora di più nella stupita impressione che suscita in noi il senso della comunità, il senso civico, la disponibilità al sacrificio personale che connotano la sua vita e che si esprimono in modo peculiare nel suo rapporto con la guerra.

La guerra vuol dire moltissime cose, implica un’infinità di aspetti individuali e collettivi che riguardano ambiti dai quali le nostre società segnano da tempo una lontananza abissale. Morire in guerra per noi è diventato ormai inconcepibile. E tuttavia avvertiamo che quella circostanza così drammatica, la guerra, mette in gioco tratti ancestrali dell’identità umana cui è difficile negare un valore elementare quanto si vuole ma pur sempre cruciale: il coraggio, il sentimento di solidarietà con chi sta al nostro fianco, l’abnegazione.

Esiste un luogo vicino e insieme lontanissimo nel quale tutto quanto ho detto finora, la coesione sociale, le virtù civiche, certi valori antichi, hanno ancora corso. Dove ancora è costretto ad esistere un passato che un tempo era anche nostro e la cancellazione del quale siamo abituati a considerare ineluttabile e per molti aspetti perfino un progresso. Israele è quel luogo che con la sua esistenza getta un dubbio inquietante sulla necessità e sul significato di tale progresso. Che cosa si vuole di più per giustificare l’infastidita insofferenza pronta a divenire avversione che proviamo nei suoi confronti

l patrono Nikolaj Patrušev e il destino della Russia nel ‘Putin congelato’

di Stefano Caprio. Asaia News – 19 Novembre 2023

Nel Paese si rafforzano i dubbi sulla reale sussistenza del presidente, dato per morto o sostituito tanto da essere soprannominato “l’uomo del frigorifero”. Il capo supremo espressione quasi anonima e impersonale. Kirill incarna il ruolo celebrativo, ma il potere e nelle mani dell’oscuro segretario del Consiglio di sicurezza che parla dello “zar Putin” al passato.

Negli ultimi tempi si sta creando una singolare atmosfera di gelo in Russia, non dovuta ai freddi invernali che tardano ad affermarsi, viste le svolte imprevedibili dei cambiamenti climatici, ma per le incerte percezioni che riguardano il presidente Vladimir Putin. Come non esistono nella mente dei russi certezze assolute riguardo alla scomparsa improvvisa e scenografica del “cuoco” Evgenij Prigožin, o alla cagionevole salute del “macellaio” ceceno Ramzan Kadyrov, ora si aggiungono apprensioni circa la reale sussistenza dello stesso Putin. Dato per morto da alcuni e sostituito da vari sosia, per altri “congelato” nei suoi bunker per motivi sanitari o semplicemente di sicurezza, tanto da essere ormai chiamato “l’uomo del frigorifero”.

Non è poi così decisivo se il prossimo presidente, che verrà proclamato il 18 marzo 2024 con oltre l’80% dei voti, sarà lo stesso che domina il Paese da oltre un ventennio, o un suo alias dei tempi dei droni e dell’intelligenza artificiale, più ancora dei mascheramenti e operazioni chirurgiche. Chi siederà sul trono del Cremlino dovrà corrispondere a una funzione definita dall’ideologia e perfino dalla religione; un idolo a cui prostrarsi in nome della grandezza della Madre Russia, vera divinità venerata fin da prima del Battesimo di Kiev nel 988, ancora nelle incerte ispirazioni del paganesimo scandinavo, caucasico e asiatico del popolo a cavallo di Oriente e Occidente. I “valori tradizionali” impersonati da questa figura semi-divina trascendono perfino il cristianesimo ortodosso, in più occasioni interpretato solo come un attributo dell’autentica anima russa, preesistente ad ogni altra forma di morale o religione, proiettata sulla soluzione finale della storia universale.

Per questo il capo supremo della Russia deve rimanere un’espressione quasi anonima e impersonale, evitando di confondere e sminuire la purezza del collettivo, la sobornost del popolo eletto. I monarchi che nella storia hanno cercato di imporre la propria personalità e visione hanno fallito la loro missione, come il primo zar Ivan il Terribile, che per le sue paranoie isteriche fece sprofondare la Russia cinquecentesca della “Terza Roma” nei Torbidi del conflitto con la Polonia-Lituania, di cui Putin oggi cerca di evitare la replica con la “difesa” dell’Ucraina dall’invasione dell’Occidente immorale. Al contrario, l’occidentalista Pietro il Grande non seppe conservare la vera anima russa, diffondendo lo spirito oscuro della “città maledetta” da lui creata a imitazione delle capitali europee, quella San Pietroburgo nei cui antri si contorcono i personaggi grotteschi e apocalittici dei romanzi di Gogol e Dostoevskij. Il modello perfetto, a cui oggi si ispira la Russia putiniana, è stato invece il grigio segretario georgiano Iosif Stalin, il cui culto della personalità nella Ortodossia “rovesciata” del Comunismo russo ha indicato la via per la totale purificazione.

Lo stalinismo è la vera realizzazione della sobornost, garantendo pace e sicurezza nella luce della Vittoria sui nemici, alimentando lo stato di guerra permanente come era appunto la “guerra fredda”, da combattere sul campo e nella mente a tutte le latitudini. Dopo la sbandata del “disgelo chrusceviano”, la Russia sovietica si ricompattò nel ventennio della “stagnazione”, guidata da un essere impersonale come Leonid Brežnev proprio negli anni della formazione giovanile di Putin e del patriarca Kirill. Dopo i “torbidi eltsiniani”, seguiti alla sciagura del crollo del sistema, provocata dalle fantasiose intemperanze della perestrojka gorbacioviana, ora la Russia si può adagiare nuovamente sul neo-stalinismo putiniano, garantito da un anonimo padrino la cui permanenza al trono del Cremlino non è messa in discussione neppure dal fastidio della morte fisica.

Il potere supremo e metafisico si basa sulle due grandi prerogative della religione staliniana, il conflitto e la sicurezza, che Putin sta interpretando al massimo livello. La guerra è ormai in corso a livello planetario, trovando nell’Ucraina e in Israele i perfetti comprimari per proiettarsi almeno su un secolo di combattimenti, sprofondando nelle dighe del Donbass e nei cunicoli di Gaza. E la sicurezza interna della Russia è talmente capillare da aver eliminato non soltanto tutti gli avversari politici, rinchiusi nei lager o sparsi nel vuoto dell’Occidente, ma perfino i sentimenti pacifisti e liberali ancora rimasti nelle menti dei russi. I dissidenti non preoccupano la dirigenza del Cremlino, conta di più la percezione di impotenza e sottomissione nelle masse, da alimentare con la propaganda e la sorveglianza. A questo ci pensano le vere strutture del potere, le uniche eredità staliniane rimaste in vita dopo la fine dell’Urss: il patriarcato di Mosca e il Consiglio di sicurezza.

Il patriarca Kirill ha incarnato alla perfezione il ruolo celebrativo a cui si era preparato fin da quando era un giovane vescovo brezneviano, il “chierichetto del potere” secondo la definizione di papa Francesco. In questi giorni ha dato un segnale di apertura della prossima campagna elettorale, invocando la repressione delle “intenzioni favorevoli” all’aborto, nel Paese al mondo dove la pratica dell’aborto è più facile e più diffusa: non contano i fatti, ma le “intenzioni”. Il capo della Chiesa, nella variante staliniana, deve fornire le giustificazioni della guerra, e il connubio tra preti e soldati si è esaltato nella guerra in Ucraina, dopo essere stato profetizzato nella “Cattedrale della Vittoria” eretta nel 2020. L’anno della celebrazione dei 75 anni dall’ingresso a Berlino dei salvatori del mondo, veri figli del Cristo con la spada e della Vergine con la mitragliatrice.

Se la funzione patriarcale assume contorni pubblici e liturgicamente enfatici, meno evidente è il contributo degli uomini della sicurezza, i leggendari fantasmi dei servizi del Kgb-Fsb, da cui proviene lo stesso “zar del frigorifero”. Nell’inquietudine che aleggia sulla persona fisica del presidente, assume sempre più importanza l’oscuro segretario del Consiglio di sicurezza di Mosca, Nikolaj Patrušev, che molti chiamano il “patrono di Russia”, colui che sorveglia e garantisce l’ordine delle cose. Secondo le norme, in assenza improvvisa (o morte mascherata) del capo di Stato è proprio lui a svolgere le funzioni di reggente, o di caposquadra degli alias e dei sosia.

In alcuni recenti discorsi Patrušev ha alimentato il sospetto che sia lui a tenere in mano la situazione, esponendo con autorevolezza i programmi della Russia in vista della rielezione di Putin e dettando la linea politica nella fase acuta del conflitto mondiale. Il 16 settembre aveva denunciato il “crollo dell’impero dei parassiti” occidentali, in una lunga relazione pubblicata sulla rivista dei servizi Razvedčik (“L’Investigatore”). Il 4 novembre, in occasione della festa dell’Unità del Popolo, ha assicurato che “il popolo russo è in grado di superare tutte le minacce interne ed esterne, grazie alla sua compattezza”. Il discorso è stato pronunciato durante la “maratona” della società Znanie (“La Conoscenza”), una delle strutture sopravvissute dai tempi sovietici, essendo stata fondata nel 1947 sulle ali dell’entusiasmo staliniano per la Vittoria, allo scopo di “diffondere le conoscenze politiche e scientifiche”, soprattutto con la propaganda anti-religiosa, la “catechesi” ateista. Sembrava dovesse essere sciolta, ma negli ultimi anni Patrušev ne ha ispirato la rifondazione usandola come luogo privilegiato per esporre le nuove visioni della Russia anti-occidentale.

Il “patrono” risulta quindi essere il garante del “padrino”, perfezionando un sistema di “paternità anonima” rispetto al popolo, che non vede alternative a Putin e al putinismo in quanto la religione di Stato ha cancellato il concetto stesso di “alternativa”, e con esso anche il principio di successione: a Putin può succedere soltanto Putin, la continuità del potere diventa reincarnazione del potere, grazie alla sorveglianza onnicomprensiva. Patrušev controlla l’Fsb, che a sua volta controlla la magistratura, i tribunali e la Guardia nazionale. Il Servizio federale di protezione (Fso) mantiene un’indipendenza formale, essendo adibito alla custodia del “frigorifero”, ma in realtà tutto funziona perfettamente all’unisono e non si prevedono colpi di testa alla Prigožin. Sempre ammesso che si trattasse di una vera rivolta, nelle segrete stanze del gelido bunker del Cremlino.

Il discorso di Patrušev alla Znanie è stato anche chiamato il “necrologio di Putin”, perché facendo un bilancio dei suoi 23 anni di governo, il “patrono” ne parlava solo al passato con tono mesto. Lo zar secondo lui “ha salvato il Paese dalla deriva eltsiniana perché conosceva ogni dettaglio della situazione e aveva un chiaro programma da realizzare, uno scopo per cui sapeva di doversi assumere la responsabilità per la salvezza di tutta la società”. Rimembrando i meriti del padrino della Patria, Patrušev continuava a tornare sulle azioni del passato, degli anni Novanta e all’inizio dei Duemila, senza accennare al Putin attuale, se non con un breve riferimento alla nuova Costituzione del 2020. Non una parola sull’operazione militare speciale, logica conseguenza di tutto il “piano di salvezza”. Lo zar non vive nel presente, ma assume una dimensione eterna ed eterea, perché la vera Russia sta soltanto nei cieli, dove ogni sofferenza e ogni tragedia viene superata, e tutto ciò che sta sulla terra sprofonda ormai nell’abisso.

TESTI E DOCUMENTI

CRISTIANESIMO E ISLAM

La conversione di Ayaan Hirsi Ali, l’infedele condannata dall’islam

Condannata a morte, con una fatwa, nel 2004, per il film Submission (per cui è stato ucciso Theo van Gogh), Ayaan Hirsi Ali aveva abbandonato l’islam per diventare atea. Ora è cristiana. E spiega perché.

EDITORIALI 16_11_2023 – Anna Bono – La Nuova Bussola

Ayaan Hirsi Ali, somala, nata in una famiglia musulmana, nel 2004 ha osato scrivere il testo di un cortometraggio intitolato Submission, realizzato dal regista olandese Theo Van Gogh, in cui si racconta la storia di alcune donne islamiche vittime di abusi e maltrattamenti inflitti nel nome di Allah e nel rispetto della legge coranica. Theo Van Gogh ha pagato con la vita. È stato ucciso ad Amsterdam, per strada, da un immigrato marocchino che, dopo aver sparato otto colpi di pistola, gli ha conficcato nel petto un coltello con infilata nella lama una lettera di cinque pagine contenente minacce ai governi occidentali e agli ebrei e una fatwa, una sentenza islamica, di condanna a morte per Ayaan.

All’epoca lei abitava in Olanda. Le autorità del Paese le hanno subito assegnato una scorta. Quando su pressioni politiche le è stata tolta, si è trasferita negli Stati Uniti che le avevano offerto asilo.

Nei suoi due splendidi libri autobiografici pubblicati in Italia da Rizzoli, Infedele, nel 2007, e Nomade, nel 2010, racconta come l’incontro a 20 anni con l’integralismo islamico, attraverso gli insegnamenti dei Fratelli Musulmani, l’avesse conquistata inducendola a indossare il velo, cosa che prima non faceva, e a seguire quanto meglio possibile le prescrizioni della legge coranica. Ma presto la loro intolleranza, il loro implacabile odio e disprezzo per gli infedeli, la loro negazione di ogni piacere e svago, la loro insistenza sul dovere del jihad, la guerra santa per conquistare all’islam tutta l’umanità, il loro inflessibile richiamo all’obbligo di sottomettersi all’islam senza mai riflettere, dubitare, interrogarsi, l’hanno indotta dapprima a mettere in discussione molte delle istituzioni della società musulmana – alcune delle quali lei stessa aveva subito, l’infibulazione da bambina e da grande l’imposizione di un matrimonio combinato, deciso dal padre – poi ad abbandonare la pratica religiosa e infine a diventare atea.

Lo aveva rivelato con coraggio, lei già oggetto di una fatwa di morte, consapevole del nuovo rischio che correva perché l’abiura è il crimine più grave che possa commettere un musulmano, meritevole di morte ancor più che gli atti blasfemi, a maggior ragione perché nel frattempo aveva acquisito fama internazionale, era diventata consigliere della Casa Bianca, autorevole tanto che nel 2005 la rivista Time l’ha proclamata una delle 100 persone più influenti del mondo.

Adesso, a conclusione di un percorso da lei definito «un lungo viaggio attraverso un deserto di paura e insicurezza», ha annunciato di essersi convertita al cristianesimo. In un comunicato pubblicato il 13 novembre dal titolo Perché adesso sono cristiana Ayaan ha spiegato perché. «Ho riconosciuto – scrive – che esiste un modo migliore per gestire le sfide dell’esistenza rispetto a quello che l’islam o la miscredenza avevano da offrire. Mi sono convertita al cristianesimo perché la vita senza nessun conforto spirituale mi era insopportabile, anzi era quasi autodistruttiva. L’ateismo non è riuscito a rispondere a una semplice domanda: qual è il significato e lo scopo della vita?».

Già nel 2010, nell’introduzione a Nomade, aveva scritto: «Ho avuto il piacere di incontrare cristiani il cui concetto di Dio è ben lontano da Allah. Questo Dio cristiano moderno è sinonimo di amore: i preti non predicano odio, intolleranza e discordia; questo Dio è misericordioso, non cerca il potere temporale e non è in competizione con la scienza; i suoi seguaci considerano la Bibbia un libro fatto di parabole, non di ordini tassativi a cui attenersi scrupolosamente. Il cristianesimo di amore e tolleranza resta uno dei più potenti antidoti dell’Occidente all’islam di odio e intolleranza».

«Naturalmente ho ancora molto da imparare sul cristianesimo – dice adesso – scopro qualcosa di più ogni domenica andando in chiesa». Ma quello che ha capito finora le fa dire che il cristianesimo, oltre a dare un significato e uno scopo alla vita di ciascuno, è l’unica via di salvezza per la civiltà occidentale e quindi per l’umanità intera. «Per me – scrive – la libertà di coscienza e di parola è forse il più grande beneficio che si deve alla civiltà occidentale. Non è naturale per l’uomo. È il prodotto di secoli di dibattito all’interno delle comunità ebraiche e cristiane. Sono stati questi dibattiti che hanno fatto avanzare la scienza e la ragione, ridotto la crudeltà, soppresso le superstizioni e costruito istituzioni per ordinare e proteggere la vita, garantendo allo stesso tempo la libertà a quante più persone possibile. È diventato sempre più evidente che l’insegnamento di Cristo implica non solo un ruolo circoscritto della religione come qualcosa di separato dalla politica. Implica anche compassione per il peccatore e umiltà per il credente. La sua eredità consiste in un insieme elaborato di idee e istituzioni progettate per salvaguardare la vita, la libertà e la dignità umana. Come ha mostrato Tom Holland nel suo meraviglioso libro Dominion, ogni sorta di libertà apparentemente secolari – di mercato, di coscienza e di stampa – trovano le loro radici nel cristianesimo».

Ma bisogna sconfiggere il vuoto nichilistico. «In questo vuoto nichilistico – conclude Ayaan – la sfida che abbiamo davanti diventa quella della civiltà. Non possiamo resistere alla Cina, alla Russia e all’Iran se non riusciamo a spiegare alle nostre popolazioni perché è importante che lo facciamo. Non possiamo combattere l’ideologia woke se non possiamo difendere la civiltà che è determinata a distruggere. E non possiamo contrastare l’islamismo con strumenti puramente laici. Per conquistare i cuori e le menti dei musulmani qui in Occidente dobbiamo offrire loro qualcosa di più dei video su TikTok. La lezione che ho imparato dai miei anni con i Fratelli Musulmani è stata il potere di una storia unificante, incorporata nei testi fondamentali dell’islam, per attrarre, coinvolgere e mobilitare le masse musulmane. A meno che non offriamo qualcosa di altrettanto significativo, temo che l’erosione della nostra civiltà continuerà. E fortunatamente, non c’è bisogno di cercare… Il cristianesimo ha tutto».

Grazie al Battesimo, Indi è salva

di Cristina Siccardi – Corrispondenza Romana – 15 Novembre 2023

Chi resta ancorato ai valori eterni inorridisce di fronte a sistemi statali, antichi e moderni, che hanno e continuano ad introdurre modalità differenti per eliminare esseri umani non conformi al potere vigente: ogni epoca ha i suoi carnefici ed oggi assistiamo con orrore ad una legislazione britannica che si accanisce sugli innocenti, condannandoli a morte attraverso appositi protocolli.

Il sistema sanitario inglese è una macchina tirannica, per cui, se non entri all’interno di certi parametri, sei destinato a venire soppresso senza pietà in un contesto ospedaliero. Neppure se i pazienti sono bambini vengono graziati, nonostante gli appelli di richiesta di umanità che di tanto in tanto lanciano alcuni genitori e associazioni che stanno al loro fianco. Mamme e papà, letteralmente sfibrati dalle logoranti battaglie in tribunale, si ritrovano persino a non vedere esaudita la lacerante richiesta di portare a casa la propria creatura, affinché possa morire nel dolce e caldo contesto familiare.

Casi sconosciuti e casi mediatici, come Charlie Gard, Alfie Evans, RS, Archie Battersbee, Sudiksha Thirumalesh, vanno ad accrescere il numero di quei piccoli che vengono periodicamente condannati a morte dall’eutanasia di Stato. Ora è stata la volta di Indi Gregory, per la quale il governo italiano, distinguendosi ancora una volta, come era già accaduto per il caso di Alfie Evans nel 2018, le ha dato la cittadinanza italiana al fine di trasferirla all’Ospedale Bambino Gesù di Roma, che si era proposto per continuare le terapie a cui era sottoposta per curare la sua patologia mitocondriale. Il diabolico protocollo per Indi Gregory predisponeva che la fornitura di ossigeno fosse a tempo determinato, nonché la sospensione delle cure e il divieto di rianimazione in caso di crisi. Così il tribunale inglese ha disposto l’arresto ai trattamenti vitali e sabato 11 novembre è stata trasferita, scortata dalla polizia, dal Queen’s Medical Centre di Nottingham a un vicino hospice, dove è stata gradualmente interrotta la ventilazione assistita e le sono stati somministrati farmaci palliativi per alleviarne le sue sofferenze. L’agonia è durata un giorno e mezzo, terminando all’1:45 (2:45 ora italiana) di lunedì 13 novembre.

Indi è nata il 24 febbraio di quest’anno, nel giorno, “guarda caso”, in cui la Chiesa festeggia sant’Etelberto, re del Kent, che accolse la delegazione di monaci inviata da papa san Gregorio Magno e guidata da sant’Agostino vescovo di Canterbury – entrambi ricordati come apostoli degli Angli –, permettendo così il battesimo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo di migliaia di persone, battesimo a cui si sottopose re Etelberto nel giorno di Pentecoste del 597.

Ebbene, anche l’inglese Indi ha ricevuto il battesimo per volere dei genitori, sebbene non credenti. La Provvidenza ha le sue vie, ed ecco che tale decisione è scaturita da un ragionamento molto preciso e logico di suo papà, Dean Gregory: «Non sono religioso e non sono battezzato. Ma quando ero in tribunale mi sembrava di essere stato trascinato all’inferno. Ho pensato che se l’inferno esiste, allora deve esistere anche il paradiso. Era come se il diavolo fosse lì. Ho pensato che se esiste il diavolo allora deve esistere Dio. Una volontaria cristiana visitava ogni giorno il reparto di terapia intensiva e mi ha detto che il battesimo ti protegge e ti apre la porta del paradiso. […] Ho visto com’è l’inferno e voglio che Indi vada in paradiso» (https://lanuovabq.it/it/mia-figlia-indi-messa-a-morte-da-un-sistema-diabolico) e l’intenzione è quella che nella famiglia ci siano altri lavacri al fonte battesimale. Indi, grazie al battesimo è salva.

La salvezza, secondo il vocabolario della fede, riguarda quella oltre la vita terrena, ed è la Vita eterna. Insegna sant’Agostino a riguardo proprio del battesimo ricevuto dai bambini: «Se dunque si può dimostrare che siamo morti al peccato per il fatto che siamo stati battezzati nella morte di Cristo, certamente anche gli infanti che vengono battezzati in Cristo muoiono al peccato, perché vengono battezzati nella morte di lui. Senz’esclusione di nessuno, infatti, Paolo dice: Noi tutti che siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte (Rm 6, 3). Perciò lo dice per dimostrare che noi siamo morti al peccato. E a quale peccato muoiono gli infanti, rinascendo, se non a quello che contrassero nascendo? Perciò riguarda anche loro ciò che l’Apostolo soggiunge: Infatti siamo sepolti insieme con lui, per il battesimo, nella morte, affinché come Cristo risorse dai morti per la gloria del Padre, così anche noi camminiamo in una nuova vita. […] gustate le cose di lassù, non quelle della terra: siete infatti morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio (Col 3, 1-3)».

Il battesimo ha spalancato le porte del Paradiso alla piccola vittima della crudeltà laica dei “diritti umani”. San Tommaso spiega che il peccato originale è un «peccato di natura» (peccatum naturae); è un peccato contratto e non commesso (uno stato, non un atto). È il peccato di una persona (peccatum personae) solo nella misura in cui questa persona riceve la natura decaduta (natura corrupta) dei primi parentes (Adamo ed Eva). In virtù della sua appartenenza alla specie umana nella discendenza di Adamo, ogni essere umano eredita una disposizione disordinata della sua natura umana, che proviene dalla dissoluzione dell’armonia della giustizia e della santità originali.

La conseguenza propria del peccato originale è la privazione della visione di Dio, pertanto è necessaria la grazia per essere purificati dal peccato originale e per essere elevati alla comunione con Dio, così da poter entrare nella vita eterna e godere della visione di Dio. Ciò implica, per ogni essere umano, la necessità della redenzione per mezzo di Cristo. Da qui discende direttamente l’esigenza di battezzare i bambini al fine di procurare loro la remissione del peccato originale per ottenere la vita eterna. Ecco perché la Chiesa ante Concilio Vaticano II invitava tutti caldamente ad amministrare al più presto, attraverso il ministro di Dio, il sacramento del battesimo ai neonati, senza aspettare troppi giorni, perché, nell’ipotesi che fossero morti, essi potessero entrare comunque nella beatitudine eterna. 

L’insegnamento tomista sostiene che il battesimo è conferito al bambino sia per liberarlo dal peccato originale, sia per procurargli la vita divina, ovvero l’incorporazione a Cristo attraverso il dono dello Spirito Santo, spalancandogli l’accesso alla vita eterna. Se è vero che i bambini hanno ereditato il peccato originale, scrive San Tommaso, «a maggior ragione (multo magis) essi possono ricevere la grazia da Cristo per regnare nella vita eterna» (Summa theologiae III, q. 68, a. 9, corpus). Precisa san Tommaso d’Aquino: «I bambini non sono capaci di un moto di libero arbitrio, perciò Dio li muove verso la giustizia con la sola ‘informazione’ della loro anima. E ciò non può compiersi senza il sacramento: così come il peccato originale, dal quale essi sono purificati, non li ha feriti per loro volontà ma per la loro origine carnale; allo stesso modo, attraverso la rigenerazione spirituale, la grazia in essi proviene da Cristo» (Summa theologiae I-II, q. 113, a. 3, ad 1). Il battesimo dei bambini manifesta in maniera eminente la misericordia/giustizia della Santissima Trinità, che offre mezzi certi di salvezza anche ai lattanti, i quali non possono ancora cooperare all’accoglimento della grazia che li rende partecipi della vita divina. Tale misericordia/giustizia offre quindi mezzi certi anche a chi, come l’innocente Indi di 9 mesi, viene giustiziato nell’esilio di questo mondo dagli aguzzini contemporanei, che vestono i camici dell’eutanasia

MA PAPA FRANCESCO E’ PROGRESSISTA O CONSERVATORE?

Settembre 9, 2018 Culture IMG PRESS – Domenico bonvegna

Papa Francesco è progressista o conservatore? E’ una domanda che viene posta fin dal 13 marzo 2013, giorno della sua elezione al pontificato. Sulla stampa, ma soprattutto sui social, da tempo ci si interroga sulla linea politica religiosa di Papa Francesco. Da parte ultra-tradizionalista, innumerevoli sono i post che attaccano la sua persona.

In pratica viene accusato di voler distruggere la Chiesa, di favorire l’aborto e la distruzione della famiglia, di odiare i cattolici, di sfruttare i poveri per farsi bello. Dal lato opposto, i progressisti lo esaltano come un rivoluzionario che sta abolendo tutti quei principi che ostacolano il dialogo col mondo, vedi quelli di morale sessuale, del matrimonio.

Anche se ultimamente sembra che venga criticato anche da questa sponda, perché non ha fatto quella rivoluzione tanto auspicata. Per il sociologo Massimo Introvigne quella progressista è la «prima di quattro diverse opposizioni, di cui si parla pochissimo, è quella “da sinistra”, che considera Francesco un falso riformatore.

Nel mese di marzo 2018, quando il Papa ha celebrato i cinque anni di pontificato, il “New York Times”, il “Times” di Londra e “Le Monde” a Parigi hanno pubblicato articoli di autori diversi ma molto simili tra loro. Tutti accusavano Francesco di avere deluso le aspettative. Alla fine, spiegavano, la Chiesa è rimasta quella di sempre, senza donne sacerdote, senza abolizione del celibato dei preti, senza un’apertura all’aborto, e senza che nelle parrocchie cattoliche, come avviene in alcune comunità protestanti, si celebrino matrimoni omosessuali». (M. Introvigne, «Vaticano. Ecco i nemici di Francesco» 30.8.18, Il Mattino)

In questi anni di pontificato Papa Francesco è stato indicato come responsabile diretto di ogni evento negativo: dai preti pedofili all’abbandono delle vocazioni. I toni sono alti, insulti, espressioni inaccettabili, parole e giudizi che travalicano la normale e corretta critica, infamanti strumentalizzazioni e falsificazioni del suo pensiero. Qualcuno addirittura ha parlato di «guerra civile» tra cattolici. «Papa Benedetto XVI diceva che chi opera per dividere e contrapporre la Chiesa e i suoi membri di fatto opera per cercare di distruggerla.

Questo è quello che appare osservando i risultati del documento diffuso dell’ex nunzio negli Stati Uniti d’America, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, pochi giorni dopo la sua pubblicazione, il 26 agosto. Pensato e scritto con ogni evidenza per nuocere al regnante Pontefice, fino al punto di chiederne le dimissioni, il documento di fatto colpisce più pesantemente i due predecessori, Benedetto XVI e san Giovanni Paolo II (1920-2005)». (M. Invernizzi, «Cum Petro», 31.8.18, in Alleanzacattolica.org).

Comunque per ora tralascio la questione Viganò e da semplice fedele peccatore,  tento di fare un po’ di chiarezza, sul cosiddetto progressismo di Papa Francesco. Propongo alcuni testi pubblicati, tra l’altro, a ridosso della sua elezione. Allora, forse erano più forti i pregiudizi, gli stereotipi che lo volevano far apparire un papa progressista. Invece sono convinto che Papa Francesco, come ho già scritto in altre occasioni, è in linea col magistero dei suoi predecessori.

Del resto ogni volta che viene eletto un nuovo papa, inevitabilmente si accende il dibattito sulla sua identità: è conservatoreè  progressista. Per rimanere ai pontefici che ho conosciuto, è capitato sia con San Giovanni XXIII, col beato Paolo VI, con San Giovanni Paolo II, e infine con lo stesso Papa Benedetto XVI. Forse, perfino San Pio X, è stato per certi versi un papa “progressista”, o almeno riformista, basti pensare quando ha permesso ai bambini di 7 anni di accedere alla santa comunione.

Pertanto sono convinto che ogni pontefice soprattutto all’inizio, nei primi anni è sempre un innovatore, anche se poi sostanzialmente rimane sempre un conservatore, soprattutto sulla dottrina.

Tra l’altro per l’occasione sono andato a rileggermi un discorso del 1990, fatto a Rimini, dall’allora cardinale Joseph Ratzinger all’XI Meeting per l’amicizia tra i popoli, «Una Compagnia sempre riformanda», naturalmente la compagnia era la Chiesa; in questo discorso, poi diventato documento, il Papa emerito, spiega l’essenza della vera riforma. «La reformatio, quella che è necessaria in ogni tempo, non consiste nel fatto che noi possiamo rimodellarci sempre di nuovo la ‘nostra’ Chiesa come più ci piace, che noi possiamo inventarla, bensì nel fatto che noi spazziamo via sempre nuovamente le nostre proprie costruzioni di sostegno, in favore della luce prossima che viene dall’alto […]».

Nell’opera di riforma, Ratzinger diceva, parafrasando san Bonaventura, non bisogna fare come lo scultore che non fa qualcosa, ma fa una ablatio, «che consiste nell’eliminare; nel togliere via ciò che è inautentico». E trattando del modello guida per la riforma ecclesiale, Ratzinger affermava, che anche se abbiamo bisogno di nuove strutture umane di sostegno per poter parlare ed operare in ogni epoca storica. Bisogna avere chiaro che «esse invecchiano, rischiano di presentarsi come la cosa più essenziale, e distolgono così lo sguardo da quanto è veramente essenziale. Per questo esse devono sempre di nuovo venir portate via, come impalcature divenute superflue. Pertanto per il cardinale, «Riforma è sempre nuovamente una ablatio: un togliere via, affinché divenga visibile la nobilis forma, il volto della Sposa e insieme con esso anche il volto dello Sposo stesso, il Signore vivente».

Subito dopo l’elezione di papa Francesco, sono stati in tanti a raccontare la sua vita da vescovo, da cardinale di Buenos Aires. Un pastore venuto «dalla fine del mondo», che con gli atti, i gesti, le parole è stato capace di toccare il cuore e la mente di uomini e donne, di credenti e non credenti. In «Aprite la mente al vostro cuore», pubblicato da Rizzoli (2013) Il Papa rivela la profondità della sua vita spirituale e ci guida, in quattro meditazioni, all’incontro con Gesù, al mistero della manifestazione di Dio nel mondo, al futuro della Chiesa, carico di sfide eccezionali, infine alla dimensione quotidiana della vita di cui non dobbiamo vergognarci.

E’ un testo presentato dall’arcivescovo di Santa Fè, Josè Maria Arancedo. Dove si presenta raccolti alcuni scritti di Papa Francesco prima di diventare papa. In questi scritti si può apprezzare la ricca tradizione «ignaziana» dell’autore. Scritti improntati al cammino di rinnovamento spirituale e al dinamismo missionario della Chiesa. Nella I parte sul tema della fede, Bergoglio per annunciare il Vangelo, invita al discernimento, e fa riferimento continuo alla «Evangelii Nuntiandi» del beato Paolo VI.

La nostra fede è rivoluzionaria, combattiva, il cui spirito battagliero va messo al servizio della Chiesa. Fra le tentazioni più gravi c’è quella di allontanarsi dal contatto col Signore e quella della consapevolezza della sconfitta. «Nessuno può intraprendere una battaglia se già in partenza non è sicuro del proprio trionfo. Chi inizia senza fiducia ha già perso in anticipo metà della lotta.

Il trionfo cristiano è sempre una croce che è al tempo stesso vessillo di vittoria[…]». Più avanti nelle riflessioni Bergoglio ci invita ad essere realisti: «si conosce ciò per cui si lotta e, nella misura in cui non si sa per che cosa si combatta, si è destinati a essere sconfitti. I primi evangelizzatori fecero conoscere agli Indios d’America contro che cosa dovevano combattere. L’impegno dei pastori non deve tralasciare questo aspetto della fede: aiutare il prossimo a sapere contro che cosa occorre lottare».

Interessanti le riflessioni sulla Croce e il «senso belligerante della vita»: «la croce è la ‘battaglia finale’ di Gesù: in essa sta la sua vittoria definitiva. Alla luce della guerra di Dio combattuta sulla croce, possiamo approfondire la dottrina sul tema del senso belligerante della nostra vita affidata al Signore […] L’impegno dei pastori, come quello dei fedeli, sarà sempre assediato dalla tentazione di rinunciare alla lotta, o dissimularla, o indugiare nel ‘perché’ dobbiamo batterci, nel ‘quando’ e nel ‘come’…».

E riferendosi ai tanti uomini e donne che hanno perso la fede, non sapendo lottare, perché «hanno confuso la battaglia con la baraonda! E quanti, in mezzo al polverone quotidiano, non hanno saputo riconoscere chi era il nemico e hanno finito per ferirsi tra loro! Altri, per timore di battersi e in cerca di una pace fasulla, hanno immolato la propria vita sugli altari di un irenismo tanto infecondo quanto inefficace». Quanta attualità troviamo in queste parole. Pertanto Bergoglio ci invitava a chiedere al Signore, «la grazia di addentrarci nella dimensione belligerante della vita apostolica; grazia che ci libera dall’inconcludente atteggiamento infantile che ci porta a ‘giocare con la pace’ come con la guerra. Intuire la dimensione belligerante della vita apostolica implica riconoscere che, nel nostro cuore, se vogliamo servire Dio, deve esserci la lotta, intesa come ricerca della croce in quanto unico luogo teologico di vittoria[…]». Quindi per Bergoglio con «la croce non si può negoziare, non si può dialogare: o la si abbraccia o la si rifiuta[…]».

In un altro volumetto, «Non fatevi rubare la speranza», curato da Mondadori (2013), ci sono delle riflessioni già pubblicate in Argentina nel 1992, sulla preghiera, il peccato, la filosofia e la politica pensati alla luce della speranza.

In questo ricchissimo testo di riflessioni Jorge Mario Bergoglio, si ritrova il suo stile comunicativo denso di colore e di concretezza sulle questioni centrali del suo messaggio di pastore della Chiesa. Per quanto riguarda la politica si sente la necessità di superare la crisi della postmodernità, sconfiggendo sia l’individualismo che il totalitarismo. La preoccupazione più pressante per Bergoglio è l’«orientamento esistenziale del cristiano, che deve tornare a caricare su di sé le sofferenze del prossimo: ‘avvicinarsi a ogni carne dolente’ senza timore[…]».

In una riflessione su Gesù sacerdote, il cardinale, ci esorta «a rinnegare qualunque forma di ‘quiete’ paralizzante. Ci viene chiesto di ‘correre’ con coraggio», verso la testimonianza di Nostro Signore Gesù Cristo.

Mariano Fazio, sacerdote argentino, che conosce molto bene Papa Francesco, nel volumetto, «Con Papa Francesco», sottotitolo: ‘Le chiavi del suo pensiero’Edizioni Ares (2013), al terzo capitolo spiega cosa significa, uscire verso le periferie esistenziali. Bergoglio fa riferimento all’immagine evangelica del Buon Pastore, che lascia le novantanove pecore e va alla ricerca di quella perduta. Invece «oggi abbiamo una pecora nell’ovile e bisogna andare in cerca delle novantanove che sono uscite o che non sono mai state nel recinto. Rimanere in uno stato di conservazione di quel che abbiamo, disinteressandosi dei lontani, che in cuor loro ci stanno aspettando, sarebbe cadere in una Chiesa autoreferenziale, che si chiude in sé stessa e non è fedele al comando del Signore di andare fino alla fine del mondo predicando il Vangelo».

La Chiesa oggi deve cambiare modello culturale, sistema di evangelizzazione, non può aspettare con le porte aperte che la gente si avvicini. Una volta questo sistema funzionava, oggi non più. «Nella situazione attuale la Chiesa deve trasformare le proprie strutture e modalità pastorali, orientandole in modo che siano missionarie – afferma il cardinale Bergoglio –  Non possiamo rimanere ancorati a uno stile ‘clientelare’, in attesa passiva che arrivi ‘il cliente’, il fedele, bensì avere strutture che ci consentano di andare dove hanno bisogno di noi, dove sta la gente, dove si trovano quanti, pur desiderandolo,  non si avvicinerebbero a strutture e forme antiquate che non corrispondono alle loro aspettative, né alle loro sensibilità – continuava Bergoglio – Dobbiamo studiare, in maniera molto creativa, come renderci presenti nei vari ambienti della società […]».

In pratica occorre passare da una «Chiesa che ‘regolamenta la fede’ a una Chiesa che ‘trasmette e agevola la fede’».

Il cardinale già allora dissuadeva i sacerdoti dal clericalizzare i laici, anche se lo chiedono loro. «Si tratta di una complicità sbagliata». Penso ad alcune parrocchie dove alcuni laici anche anziani “vestiti di bianco” monopolizzano il servizio ministrante. Per inculturare il Vangelo nella società, bisogna evitare che i laici si riducano soltanto all’ambito ecclesiale. Invece bisogna esortarli a «penetrare gli ambienti socio-culturali e fare di loro dei protagonisti della trasformazione della società alla luce del Vangelo». L’attuale Papa lo sostiene con forza: «i laici devono smettere di essere ‘cristiani di sagrestia’ in ciascuna delle loro parrocchie, e devono assumere un impegno nella costruzione della società politica, economica, lavorativa, culturale e ambientale».

Il cardinale Bergoglio ogni anno nel messaggio ai catechisti invitava ad uscire e incontrare la gente. «Dobbiamo uscire a parlare a questa gente della città, a quelli che abbiamo visto sui balconi […] anche se possiamo sembrare un po’ pazzi, il messaggio del Vangelo è pazzia, dice san Paolo […]».

A questo punto il cardinale ricorda tutti quei preti che hanno lavorato e lavorano con gli umili, con gli ultimi, in tutte le periferie del mondo. Non è un fenomeno nuovo: don Bosco, che lavorava con i bambini, i ragazzini di strada, suscitava sospetto nei vescovi. Per non parlare di don Cafasso, don Murialdo, don Orione. Tra l’altro tutti canonizzati dalla Chiesa. «Erano tipi d’avanguardia nel lavoro con i bisognosi e in qualche modo costrinsero le autorità ad accettare dei cambiamenti».

Tra gli esclusi, Bergoglio ha prestato una particolare attenzione ai bambini, in una omelia del 2004 ha pronunciato delle frasi molto forti: «Dobbiamo inoltrarci nel cuore di Dio e incominciare ad ascoltare la voce dei più deboli, questi bambini e adolescenti[…] Gli Erodi di oggi hanno molti volti, ma la realtà è la stessa: si uccidono i bambini, si uccide il loro sorriso, si uccide la loro speranza…sono carne da cannone». La questione dell’aborto, è una questione prereligiosa, è un problema scientifico. «Il diritto alla vita è il primo dei diritti umani. Abortire equivale a uccidere colui che no ha modi di difendersi».

In un incontro con i politici, Bergoglio, riprendendo Giovanni Paolo II, denunciava con parole forti la cultura della morte e le minacce contro la famiglia. E a proposito dell’aborto, diceva: «[…] sale il grido spento di tanti bambini non nati: questo genocidio quotidiano, silenzioso e protetto; sale anche il richiamo del moribondo abbandonato che chiede quella carezza tenera che non gli sa dare la cultura della morte».

Al capitolo quarto, si parla di fare memoria, per comprendere il presente e progettare il futuro. La sua immagine preferita del passato è quella di Enea «che esce da Troia portando sulle spalle l’anziano padre Anchise e dando la mano al figlio Ascanio. Enea fa suo il passato, la tradizione, il bagaglio di sapienza degli antenati, e la trasmette in forma creativa al figlio, che continuerà fedele alla tradizione ma senza conservatorismi statici e chiusi all’innovazione».

Parlando dei popoli indigeni del Chaco argentino, Bergoglio, rimase colpito da una risposta di un indio che le preghiere per lui erano «il catechismo. Era il catechismo di san Turibio di Mogrovejo. La memoria dei popoli non è un computer, bensì un cuore». Insomma in tutte le manifestazioni religiose del popolo fedele c’è un’esplosione spontanea della memoria collettiva. «In esse c’è tutto: lo spagnolo e l’indio, il missionario e il conquistatore, il popolamento spagnolo e il meticciato». E seguendo Giovanni Paolo II, Bergoglio afferma che «l’inculturazione è pertanto il processo attraverso il quale la fede si fa cultura». Una frase di Papa Wojtyla, ha segnato molto la vita di Bergoglio: «Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta». Inculturare non è un processo facile, «poiché non si devono in alcun modo diluire le caratteristiche e l’integrità del messaggio cristiano. Inculturare è incarnare il Vangelo nelle diverse culture, trasmettere valori, riconoscere i valori delle diverse culture, purificarli, evitare sincretismi».

Perfino nell’intervista tanto chiacchierata a padre Antonio Spadaro, mi sembra che Papa Francesco dica cose di “sempre”. Io ho letto il volumetto edito dalla Rizzoli (2013): «Papa Francesco. La mia porta è sempre apertaConversazione con Antonio Spadaro». Un gesuita che intervista un altro gesuita. Questo libro svela il “pensiero in movimento” di papa Francesco, scrive Spadaro. La sua formazione, la sua spiritualità, il suo rapporto con l’arte e la preghiera. «Ho bisogno di uscire per strada, di stare con la gente», dice papa Francesco.

Nel libro emerge il Papa gesuita, che svolge la sua missione alla luce della spiritualità ignaziana, che si aiuta sempre con il discernimento, per sentire le cose di Dio a partire dal suo ‘punto di vista’. Ci vuole tempo per attuarlo. «Molti pensano che i cambiamenti e le riforme possano avvenire in breve tempo. Io credo che ci sia sempre bisogno di tempo per porre le basi di un cambiamento vero, efficace». Pertanto per Spadaro, il discernimento “è una chiave fondamentale per comprendere il modo in cui Papa Francesco vive il suo ministero radicato nella spiritualità alla quale si è formato.”

Parlando della Compagnia di Gesù, papa Bergoglio, dice che deve mettere sempre al centro Cristo e la Chiesa, e non se stessa. «La Compagnia deve avere sempre davanti a sé il Deus semper maior, la ricerca della gloria di Dio sempre maggiore, la Chiesa Vera Sposa di Cristo Nostro SignoreCristo Re che ci conquista e al quale offriamo tutta la nostra persona e tutta la nostra fatica, anche se siamo vasi di argilla, inadeguati». E qui il Papa indica tutte le caratteristiche della Compagnia, facendo riferimento a S. Ignazio, ma soprattutto al beato Pietro Favre, sentendosi ‘compagno di Gesù Cristo’, come lo fu Ignazio.

Alla fine del I capitolo ci sono due stoccate “politiche” di Bergoglio: ‘non sono né di destra, né di sinistra. Inoltre «le rigide caselle del progressismo e del conservatorismo appaiono obsolete: non reggono più».

Al capitolo II, sul tema Chiesa, occorre «sentire con la Chiesa», non solo con la sua parte gerarchica, ma anche col santo popolo di Dio. Interessante l’idea che dà papa Francesco della santità. Sono santi quelle donne pazienti che fanno crescere i figli, il papà che lavora e porta il pane a casa, gli ammalati, i preti anziani, le suore che lavorano tanto e che vivono una santità nascosta. Penso agli ospizi dove curano gli anziani.

«La santità io la associo spesso alla pazienza: non solo la pazienza come hjpomonè, il farsi carico degli avvenimenti e delle circostanze della vita, ma anche come costanza nell’andare avanti, giorno per giorno. Questa è la santità della Iglesia militante di cui parla anche sant’Ignazio. Questa è stata la santità dei miei genitori: di mio papà, di mia mamma, di mia nonna Rosa che mi ha fatto tanto bene».

Non dobbiamo ridurre la Chiesa a un nido protetto dalla nostra mediocrità, a una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate.

E poi la definizione tanto citata, La Chiesa? E’ un ospedale da campo«la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battagliaE’ inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite…E bisogna cominciare dal basso». Certamente è un’immagine fortissima, che contiene in sé anche la percezione drammatica che il mondo vive una condizione bellica con morti e feriti.

Qui Papa Francesco è veramente straordinario nelle sue riflessioni, poi, facendo riferimento al passato, dice: «La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: ‘Gesù Cristo ti ha salvato!’». Poi invita i ministri di Dio ad essere misericordiosi. Per il Papa, «non si può curare un malato se non partiamo da ciò che è sano».

I confessori non devono essere né troppo rigoristi, né troppo lassisti«Nessuno dei due è misericordioso, perché nessuno dei due si fa veramente carico della persona. Il rigorista se ne lava le mani perché lo rimette al comandamento. Il lasso se ne lava le mani dicendo semplicemente ‘questo non è peccato’ o cose simili. Le persone vanno accompagnate, le ferite vanno curate».

Il Papa invita i ministri del Vangelo a cambiare atteggiamento. Questa è la vera riforma. «I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella notte, nel loro buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato».

Qui il Papa poi fa riferimento alle situazioni complesse, come i divorziati, gli omosessuali. Invita i preti al discernimento, caso per caso: condannare l’errore e non la persona. «Il confessionale non è una sala di tortura, ma il luogo della misericordia nel quale il Signore ci stimola a fare meglio che possiamo». Il Papa avvia un altro ragionamento importante sui cosiddetti principi non negoziabili. Non possiamo insistere nel parlare solo di aborto, omosessualità, metodi contraccettivi. Del resto il parere della Chiesa ormai si sa, non è necessario parlarne in continuazione.

«Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus».

Secondo Papa Francesco però, «accompagnare l’uomo non significa affatto adattarsi allo spirito del mondo. Bergoglio si scaglia violentemente contro la ‘mondanità spirituale’, che viene prima di quella etica. Vede la trappola dell’individualismo, del relativismo, del secolarismo. Accompagnare non significa né adattarsi né cedere, ma sostenere».

Pertanto secondo papa Francesco, «dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. E’ da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali».

Il Papa scende nei particolari, sui contenuti che deve avere una buona omelia. Si comincia dall’annuncio della salvezza, poi si può fare catechesi, infine si può tirare anche una conseguenza morale. Tuttavia oggi la Chiesa deve avere le «porte aperte», deve cercare l’incontro, uscire per strada, di stare con la gente. Bisogna educare i giovani alla missione: «ad andare, a essere callejeros de la fe (girovaghi della fede). Così ha fatto Gesù con i suoi discepoli: non li ha tenuti attaccati a sé come una chioccia con i suoi pulcini; li ha inviati! Non possiamo restare chiusi nella parrocchia, nelle nostre comunità […]Spingiamo i giovani affinché escano». Occorre privilegiare una pastorale partendo dalla periferia«Stare in periferia aiuta a vedere e capire meglio, a fare un’analisi più corretta della realtà, rifuggendo dal centralismo e da approcci ideologici». Il concetto di Chiesa che Papa Francesco ha delineato nell’intervista è certamente in sintonia con i suoi predecessori, e con il Concilio, non vedo nessuna rottura.

Infine per quanto riguarda le curiosità che riguardano il primo Papa latinoamericano, ho letto, «Il Vaticano secondo Francesco», di Massimo Franco, Mondadori (2014) e «Così è Francesco. Un gesuita in Vaticano», di Caroline Pigozzi e Henri Madelin, Sonzogno (2014).

Massimo Franco tra le tante curiosità su papa Francesco ne individua alcune come il primo pontefice figlio di una megalopoli, Buenos Aires, che ha vissuto in anticipo i problemi con i quali sono chiamati oggi a fare i conti la Chiesa cattolica e il mondo globalizzato. Per lui però la novità più grossa è che questo papa rivoluzionario oltre ad essere argentino, gesuita e “globale”. «L’elemento spiazzante è che si tratta di un autentico ‘straniero’ per la mentalità della Curia romana, eletto dopo il trauma della rinuncia di Benedetto XVI. Il compito affidatogli è di smantellare la corte pontificia e una numenklatura ecclesiastica spesso troppo autoreferenziale – secondo Franco – il suo viaggio da Buenos Aires a Casa Santa Marta, l’ex lazzaretto all’interno del Vaticano dove ha deciso di abitare, segna un epocale cambio di mentalità». Naturalmente Franco usa toni giornalistici, per descrivere i movimenti del nuovo Pontefice. Praticamente per lui Santa Marta diventa il luogo simbolo della rivoluzione di Bergoglio. La metafora di un nuovo inizio nella Chiesa cattolica. Si riparte da Santa Marta per un ritorno della Chiesa alle origini. «Un’austerità generale credo sia necessaria per tutti noi che viviamo al servizio della Chiesa», afferma papa Francesco. Pare che Francesco usi questa roccaforte, secondo Franco, «per sradicare una mentalità fatta di senso di impunità, carrierismo, lobbismo di ogni tipo, corruzione, avidità di denaro».

Anche il libro intervista di Caroline Pigozzi, nota vaticanista e Henri Madelin, tra i più autorevoli gesuiti, vogliono presentarci il nuovo Papa, come un uomo carismatico e sorprendente sia in pubblico che in privato. Il libro vuole essere un’opera chiave per penetrare la personalità di questo Papa venuto dalla fine del mondo. Anche la Pigozzi sottolinea la questione della scelta di Santa Marta. «Per condurre una vita conforme alla semplicità del Vangelo, il vicario di Cristo non vuole dare l’impressione di vivere in un museo. La maestosità di questi palazzi, l’imponenza degli arredi, l’altezza degli ammirevoli soffitti, la ricchezza delle figure allegoriche dipinte dai più grandi artisti del Rinascimento, la bellezza insolente e la magnificenza della Sala Clementina[…]». Il Papa teme di essere tagliato fuori dal mondo esterno. Per questo si è rifiutato di vivere al terzo piano del Vaticano, «non potrei mai vivere da solo in quel palazzo».

Un’altra tradizione secolare interrotta rispetto ai predecessori è quella di non trascorrere le vacanze a Castel Gandolfo, sulle colline che dominano il lago Albano. Per viaggiare sceglie una modesta utilitaria al posto di una limousine con i vetri oscurati e tutti i confort.

Tuttavia nel capitolo 5, «Un Papa politico e mediatico», la Pigozzi è convinta che oltre ad alcune modifiche nella curia, «sul piano dottrinale dovrebbero esserci pochi cambiamenti perché il nuovo successore di Pietro è legato alla tradizione. Sulle questioni morali – l’interruzione della gravidanza, la contraccezione e l’omosessualità – non modificherà di molto la linea e resterà di certo fedele agli orientamenti dei suoi predecessori».

 Domenico Bonvegna

“Dio non ha ripudiato il suo popolo” (S. Paolo ai Romani)

Lettera di Paolo Apostolo ai (Romani Cap 11)

11. Io domando dunque: Dio ha forse ripudiato il suo popolo? Impossibile!Anch’io infatti sono Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino. 2 Dio non ha ripudiato il suo popolo,che egli ha scelto fin da principio.
Non sapete ciò che dice la Scrittura, nel passo in cui Elia ricorre a Dio contro Israele? 3Signore, hanno ucciso i tuoi profeti, hanno rovesciato i tuoi altari, sono rimasto solo e ora vogliono la mia vita. 4Che cosa gli risponde però la voce divina? Mi sono riservato settemila uomini, che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal. 5Così anche nel tempo presente vi è un resto, secondo una scelta fatta per grazia. 6E se lo è per grazia, non lo è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia.
7Che dire dunque? Israele non ha ottenuto quello che cercava; lo hanno ottenuto invece gli eletti. Gli altri invece sono stati resi ostinati, 8come sta scritto:

Dio ha dato loro uno spirito di torpore,
occhi per non vedere
e orecchi per non sentire,
fino al giorno d’oggi
.

9E Davide dice:

Diventi la loro mensa un laccio, un tranello,
un inciampo e un giusto castigo!
10 Siano accecati i loro occhi in modo che non vedano
e fa’ loro curvare la schiena per sempre!


11Ora io dico: forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta alle genti, per suscitare la loro gelosia. 12Se la loro caduta è stata ricchezza per il mondo e il loro fallimento ricchezza per le genti, quanto più la loro totalità!
13A voi, genti, ecco che cosa dico: come apostolo delle genti, io faccio onore al mio ministero, 14nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni. 15Se infatti il loro essere rifiutati è stata una riconciliazione del mondo, che cosa sarà la loro riammissione se non una vita dai morti?
16Se le primizie sono sante, lo sarà anche l’impasto; se è santa la radice, lo saranno anche i rami. 17Se però alcuni rami sono stati tagliati e tu, che sei un olivo selvatico, sei stato innestato fra loro, diventando così partecipe della radice e della linfa dell’olivo, 18non vantarti contro i rami! Se ti vanti, ricordati che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te.
19Dirai certamente: i rami sono stati tagliati perché io vi fossi innestato! 20Bene; essi però sono stati tagliati per mancanza di fede, mentre tu rimani innestato grazie alla fede. Tu non insuperbirti, ma abbi timore! 21Se infatti Dio non ha risparmiato quelli che erano rami naturali, tanto meno risparmierà te!
22Considera dunque la bontà e la severità di Dio: la severità verso quelli che sono caduti; verso di te invece la bontà di Dio, a condizione però che tu sia fedele a questa bontà. Altrimenti anche tu verrai tagliato via. 23Anch’essi, se non persevereranno nell’incredulità, saranno innestati; Dio infatti ha il potere di innestarli di nuovo! 24Se tu infatti, dall’olivo selvatico, che eri secondo la tua natura, sei stato tagliato via e, contro natura, sei stato innestato su un olivo buono, quanto più essi, che sono della medesima natura, potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo!
25Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l’ostinazione di una parte d’Israele è in atto fino a quando non saranno entrate tutte quante le genti. 26Allora tutto Israele sarà salvato, come sta scritto:

Da Sion uscirà il liberatore,
egli toglierà l’empietà da Giacobbe.
27 Sarà questa la mia alleanza con loro
quando distruggerò i loro peccati
.

28Quanto al Vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla scelta di Dio, essi sono amati, a causa dei padri, 29infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! 30Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia a motivo della loro disobbedienza, 31così anch’essi ora sono diventati disobbedienti a motivo della misericordia da voi ricevuta, perché anch’essi ottengano misericordia. 32Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti!
33O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! 34Infatti,

chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore?
O chi mai è stato suo consigliere?
35 O chi gli ha dato qualcosa per primo
tanto da riceverne il contraccambio?

36Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen.

Note al testo

11,1-10 Dio non ha ripudiato il suo popolo
 Dio non ha ripudiato il suo popolo, perché egli rimane fedele alla sua elezione, fatta fin da principio. Ora la storia d’Israele fa capire che Dio salva il suo popolo sulla base di un piccolo resto. Paolo e i primi credenti di origine ebraica fanno parte di questo resto. Così viene confermato il principio della salvezza per grazia e non in base alle opere. L’argomentazione è intessuta di citazioni bibliche: 1Sam 12,22; 1Re 19,10.14.18; Dt 29,3; Is 29,10; Sal 69,23-24.

11,11-24 La salvezza dei pagani
 Come apostolo dei pagani, Paolo si impegna nel suo ministero per suscitare la gelosia degli Ebrei e così stimolare la conversione e salvezza di alcuni di loro (v. 14).

11,15 La conversione d’Israele sarà un evento decisivo nel disegno salvifico di Dio, paragonabile alla risurrezione dai morti.

11,17  Chiunque, mediante l’annuncio del Vangelo, è chiamato alla fede, viene innestato su Israele (4,23-25).

11,25-32 Anche Israele sarà salvato

11,26-27 Citazione di Is 59,20-21 e 27,9.

11,33-36 Inno alla sapienza di Dio
 Con parole ispirate ad alcuni testi biblici (Sal 139,6.17-18; Is 40,13; Ger 23,18; Gb 15,8; vedi anche 1Cor 2,11.16) Paolo celebra in forma innica l’insondabile sapienza di Dio, che liberamente porta a compimento il suo disegno di salvezza.

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